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Il lavoro, più di qualsiasi altra attività umana, rappresenta perfettamente la forte attrazione del nostro cervello per le situazioni stabili. Ci siamo evoluti cercando di allontanare il più possibile le minacce, tanto che le incertezze ci creano sempre spiacevoli condizioni di malessere.

Pertanto, la mente ama (follemente?) gli schemi ricorrenti, a tal punto da farci rinchiudere cognitivamente dentro routine noiose, ma che al tempo stesso ci tranquillizzano. In sostanza, viviamo (e ci piace che sia così) con l’illusione del controllo sul tempo presente, perché, in fin dei conti, lo sforzo di proiettarci nel futuro andrebbe a rompere l’equilibrio che (a fatica) abbiamo conquistato.

Poi, quando la “preziosa” zona di comfort va a farsi benedire, ecco che il cervello, con gli stessi meccanismi di protezione, va alla ricerca di altre nostre identità (secondarie?) per far quadrare di nuovo tutto. Si tratta di automatismi a volte lenti, ma che comunque si innescano immediatamente.

Ho messo alla prova questi sistemi quando, alla soglia dei cinquantanni, mi sono reso conto che la mia professione di pubblicitario non collimava più con gli obiettivi di auto-realizzazione cui aspiravo. Ovviamente, ciò non è successo da un minuto all’altro, nel senso che il “disegno”, sebbene latente, stava prendendo forma attraverso “passate di colore” successive, ma è stata la decisione istantanea, e forse in larga parte inconscia, a far “saltare il banco”.

Così, tirata la riga sul percorso professionale fin lì svolto, ecco che sono letteralmente sprofondato sul divano, insieme a tre domande:

  • Come pagherò le bollette?
  • Cosa so fare?
  • Cosa potrei fare?

Non nascondo che in quel momento di affanno o, meglio, di iperventilazione, la maggiore difficoltà è stata quella di riuscire a dare un ordine ai pensieri, alle azioni e, non da ultime, alle emozioni.

Ho fatto un elenco di cose piacevoli

Si sa, il lavoro occupa gran parte delle nostre giornate, e per questo motivo ci preclude un sacco di attività che rimandiamo sistematicamente sine die.

Si tratta di cose spesso banali e a costo zero il cui prezzo, però, lo determina il tempo. Ora, che mi ero liberato dai vincoli temporali, ho cominciato a fare jogging in orari “da pensionati”, ho letto una quantità inverosimile di libri (quelli che di solito accumulano mesi di polvere sul comodino), ho ripreso la macchina fotografica e immortalato con “occhio ghirriano” i paesaggi distanti non più di un chilometro da casa mia.

In tutto questo, cosa c’era di funzionale all’obiettivo di “rimettermi in partita”? Nulla o quasi nulla, ma il mio umore è migliorato. E quando siamo felici vediamo meglio il mondo, comprese le sue opportunità.

Ho collegato tutti i puntini

Se da un lato è semplice sapere chi siamo (sociologo -sic!-, architetto, ingegnere, etc.), è assai molto più complicato renderci conto di ciò che sappiamo fare. Infatti, cosa sapevo fare?

La prima risposta (automatica) è “Non so fare niente”. Subito dopo, e questo è il lavoro più duro, occorre “infilarsi gli stivali” e cominciare a cercare in mezzo al fango.

Nel mio caso, ma credo di poter dire che sia così un po’ per tutti, non riuscivo a dare un valore alle abilità che stavano a corollario della mia mansione principale (o ufficiale). Allora, materialmente (nel senso autentico del termine) ho messo nero su bianco le azioni giornaliere che mi avevano accompagnato per anni: parlare, raccontare, convincere, rappresentare.

Sembrerà una faccenda dozzinale, ma quella sequenza mi ha fatto vedere delle relazioni forti e come esse stesse formassero una rete di connessioni “spendibili”. Eureka! Avevo molte skill del formatore e non lo sapevo.

Ho creato il mio marchio personale

Le cose esistono solo quando è possibile attribuire loro un nome, un’immagine, una storia. In questo senso ho capito che se volevo giocarmi le mie opportunità dovevo diventare un brand.

Ho cominciato a “raccontarmi” sul blog, ho iniziato a tessere relazioni “sociali sui social”, ho messo a disposizione (Creative Commons sempre siano lodate) le mie risorse. Insomma, ho fatto tutto quello che dovrebbe fare un marchio quando si vuole posizionare nella mente dei suoi potenziali clienti. Ciò mi ha permesso di vedere oltre quello che ritenevo essere l’orizzonte.

Ho portato il mio contributo, in alcuni casi anche gratuitamente, a conferenze, convegni, workshop con lo scopo principale di allagare il mio portafoglio di relazioni. Parafrasando un antichissimo adagio, soprattutto oggi grazie ai collegamenti planetari, “il mondo è piccolo, la gente mormora” e, di conseguenza, la ruota riparte.

Ho cancellato dal mio vocabolario la parola “impossibile”

Quando ci si rimette in gioco, è indispensabile saper cogliere le opportunità anche quando sembrano esserci solo dei problemi.

Per fare un esempio, le mie primissime formazioni hanno riguardato esclusivamente l’insegnamento delle tecniche più efficaci per “realizzare delle presentazioni che spaccano” (detto fra noi, è ancora la cosa su cui investo gran parte del mio tempo), poi mi è stato chiesto se ero in grado di ampliare il novero dei miei argomenti.

Sempre la solita (maledetta) zona di comfort mi consigliava di “stare nel mio” e, conseguentemente, di declinare l’offerta, poi (ecco l’importanza di vedere come collegare i puntini) ho strutturato corsi su argomenti che erano già nelle mie corde: public speaking (è uno dei capisaldi delle presentazioni multimediali), relazione con il cliente (le slide non sono mai fini a loro stesse, ma vengono fatte strategicamente per vendere un prodotto, un servizio, un’idea), negoziazione e problem solving (il senso di un cosiddetto “PowerPoint” è sempre quello di fornire un metodo e una soluzione).

Ora, non so se il mio personalissimo viaggio dell’eroe abbia raggiunto la sua Itaca definitiva. Di certo, non escludo di salpare di nuovo. Anche quando tutti sconsiglieranno di farlo perché il mare è in tempesta.

FONTE: Sergio Gridelli ( https://www.sergiogridelli.it/2020/02/16/reinventarsi-certa-eta/ )

E’ sempre un dispiacere per noi di SpazioTu vedere uno dei nostri coworker lasciare la propria postazione.
Il format del coworking però prevede anche questo ed è normale avere un via-vai di clienti (termine che non ci piace usare, non lo consideriamo corretto).
La domanda che poniamo ogni volta è “come mai lasci SpazioTu?”.

Le risposte sono molteplici e, stranamente, sono motivo di orgoglio per noi… a breve ci arriveremo.

Apparentemente non è una strategia di marketing vincente quella pubblicizzarci tramite un’azienda (o privato che sia) che decide di lasciare SpazioTu, sarebbe utile fare invece un analisi sul perché ci scelgono.
Tuttavia, ogni grande società cerca di limare i propri difetti e risulta quindi utile studiare ogni dettaglio come quello della “perdita dei clienti”.

Una piccola percentuale di coworker, quelli che in origine erano stati mandati dalla propria azienda a lavorare in esterna, quindi in un’altra città (per permettere al singolo di non allontanarsi da casa), vengono richiamati, alla fine del periodo, alla casa madre (e costretti, purtroppo, al trasloco).
Questo fattore non giova né a SpazioTu né al singolo, poiché non dipende da problematiche dirette e risolvibili ma è semplicemente una logica conseguenza a politiche interne delle società.

Ma tralasciando questi dati statistici e l’ambito del marketing e delle politiche aziendali, perché il più delle volte siamo contenti quando i coworker decidono di spostarsi?

Perché i nostri uffici sono generalmente la “prima casa” di piccole start-up e di imprenditori che stanno provando a percorrere una strada personale. Quando questi ci lasciano lo fanno perché hanno preso ufficialmente il via e sono ormai in grado di potersi permettere uno stabile interamente dedicato alla propria attività.

E’ vero, non è una regola scritta ma, nella maggior parte dei casi, abbiamo assistito ad una crescita esponenziale dei progetti all’interno del nostro coworking e questo ha portato a questa logica conseguenza.

Dunque, ‘nonostante l’apparenza, quando qualcuno lascia il nostro “nido” è sinonimo di ottimo lavoro e questo è per noi motivo di grande soddisfazione.

DEFINIZIONE

“Un logo […] è la figura, che solitamente rappresenta un prodotto, un servizio, un’azienda, un’organizzazione, un gruppo musicale o altro ancora; tipicamente è costituito da un simbolo o da una versione o rappresentazione grafica di un nome o di un acronimo che prevede l’uso di un lettering ben preciso. (https://it.wikipedia.org/wiki/Logo).”

Così Wikipedia sintetizza il concetto di logo ma, dietro, ci sono studi intensi ed un mondo tutto da scoprire.

L’OBBIETTIVO

Lo scopo del logo è di mostrare in maniera sintetica di cosa si occupa l’azienda, provando a sommare tre fattori: nome, campo e aspetto fisico.

L’ultimo dei tre punti negli ultimi anni non è più considerato importante tanto quanto i primi due, poiché la tendenza è ormai quella di snellire il più possibile il marchio in maniera da renderlo facilmente riproducibile da tutti ed, inoltre, immediato da associare alla ditta.

ESEMPI DI SEMPLIFICAZIONI DI LOGO

A proposito della tendenza sopracitata di alleggerire il marchio abbiamo tre esempi recenti:

  • Juventus F.C. : il logo della società torinese ha subito negli anni diversi restyling ma, nel bene o nel male, aveva sempre mantenuto quattro fattori costanti: Il contorno ovale, lo stemma con il toro (logo della città) presente nella parte bassa, la scritta “Juventus” in alto ed infine le strisce bianche e nere a richiamare la divisa del club.
    Il nuovo logo, presentato nel 2017, ha cambiato tutte le carte in tavola: Una “J” bianca attraversata nel mezzo da una striscia nera (richiamo alla maglia, unica componente in comune con le vecchie versioni) è il solo elemento presente nel progetto.
    Questo cambio è stato effettuato per rendere il brand più popolare a livello internazionale e per dimostrare la capacità dell’azienda dello stare al passo con i tempi.
    (https://www.juventus.com/it/black-and-white-and-more.php)
  • La Triennale di Milano: Il vecchio logo presentava una grande “T” che faceva da base ad una stilizzazione della facciata del palazzo dell’arte di Milano.
    L’affascinante disegno di Italo Lupi è stato recentemente sostituito in concomitanza con l’inaugurazione della “23° esposizione”.
    Il nuovo marchio presenta solamente una “T” formata da 3 bande verticali e 3 orizzontali, chiaro richiamo alle esposizioni che il palazzo presenta e rinnova, come dice il nome stesso, ogni 3 anni.
    (https://www.artribune.com/progettazione/design/2019/02/nuova-identita-visiva-nuovo-look-triennale-milano/)
  • The Metropolitan Museum of Art’s: Il contestatissimo nuovo logo del celebre museo di arte di New York ha visto la luce nel 2016.
    Il vecchio marchio presentava una “M” posta su delle forme geometriche che richiamavano “L’Uomo Vitruviano” di Leonardo Da Vinci.
    Nella nuova versione non solo sono sparite tutte le vecchie componenti per lasciar spazio solamente ad una scritta rossa ma, inoltre, quest’ultima non è “The Metropolitan Museum of Art’s” ma bensì “The Met”, gergo dialettale molto utilizzato dai cittadini della grande mela per identificare il museo.
    (https://www.nytimes.com/2016/02/19/arts/the-met-and-a-new-logo.html)

CONSIDERAZIONI PERSONALI

Io stesso, da amante dei dettagli, penso che tutti e tre i vecchi loghi sopracitati siano molto più belli e completi delle nuove versioni ma, da grafico pubblicitario, capisco tutti i progetti e li promuovo a pieni voti.

Più una cosa è semplice e più le persone saranno capaci di riprodurla e ricordarla.

Ovvio, non bisogna arrivare alla sintetizzazione estrema, bisogna lavorare sempre con criterio, cercando di mantenere almeno qualche tratto distintivo dell’azienda, altrimenti non sarebbe un lavoro coerente con gli obbiettivi della stessa.

Detto ciò è chiaro che la tendenza di questi anni è quella di spostarsi sempre di più verso un mondo “minimal” a livello grafico, quindi tutti i progetti di semplificazione dei marchi sono da considerarsi quantomeno attuali.

VARIANTI

Ci sono anche società che decidono di creare più varianti.

Solitamente si utilizza un logo generico che però cambi o aggiunga, a seconda dei progetti e delle iniziative aziendali, dei piccoli elementi.

Questo permetterà di mantenere un’identità costante ma, allo stesso tempo, di spingere l’occhio del cliente ad entrare di più nei dettagli, cercando di capire a pieno il progetto e scrutando con curiosità le nuove componenti grafiche inserite e/o modificate.

UN METODO MOLTO UTILIZZATO NELLA MUSICA

Un chiaro esempio di questa tendenza possiamo trovarlo nel logo dei Linkin Park.

La famosa rock-band di Los Angeles ha utilizzato questo format sin dagli esordi.
Una “L” ed una “P” fisse come tratto distintivo ma con contorni, sfondi e forme geometriche che sono cambiate a seconda del periodo, del concept degli album e degli avvenimenti storici.

L’ultima tristissima e, probabilmente, definitiva modifica, vede un esagono spezzato senza l’ultimo segmento, a simboleggiare la prematura scomparsa del leader Chester Bennington.

(https://www.quora.com/What-does-the-Linkin-Park-logo-mean-How-was-it-designed)

L’IMPORTANZA DI UN LOGO

In conclusione i loghi sono una parte fondamentale nelle dinamiche di un’azienda poiché sono il biglietto da visita che presentiamo non solo ai nostri clienti ma a tutto il mondo per identificarci.

Non è un caso che molte ditte ingaggino team di esperti per creazioni o restyling dei marchi.

La prima impressione, purtroppo o per fortuna, conta.
Sta a noi scegliere come presentarci, l’obbiettivo, ovviamente, è far sì che le persone vengano a scoprire veramente quello che siamo capaci di offrire, magari dopo essere state attirate dal nostro logo.